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Santa Caterina

Santa Caterina

Non so se esistano le bestemmie in arabo, né se l’autista del taxi dei nostri amici genovesi abbia qualche toscano trai suoi ascendenti.
Ma quando apre il cofano per la terza volta per rimettere acqua in un radiatore che perde come un acquedotto siciliano, lo si sente smoccolare in maniera inconfondibile.
Abbiamo lasciato la costa a metà strada tra Dahab e Nuweiba, e ci siamo inoltrati in quello che sulle carte viene chiamato Blue Desert.
Il sole basso del mattino accende le montagne di rosso e rosa che virano rapidamente verso l’arancione e il giallo ocra.
Verso nord si stende il vasto altopiano “del vagabondo”, o “di colui che vaga” (Gebel el Tih).
Non so se il nome derivi dall’Esodo degli ebrei o da questi vagabondi beduini che incontriamo di tanto in tanto ai lati della strada, elegantemente appollaiati sui loro dromedari.


La benevolenza di Allah vi accompagni... Buona fortuna, magnifici straccioni!

H. Pratt
"Nel nome di Allah misericordioso e compassionevole"

A sud si vedono già le montagne più alte (poco più di 2.000 m) che con i loro graniti rossastri hanno dato il nome al Mar Rosso.
Siamo a ca. 1.000 m di altezza e fa abbastanza freddo.
Durante le frequenti soste imposte dal radiatore tiriamo fuori i cannocchiali e scrutiamo le distese di sabbia, le rocce e i cespugli sperando nella pernice delle sabbie o nell’ubara di Macqueen.
Ma non abbiamo fortuna.
Vediamo “solo” alcuni corvi collobruno, un giovane di aquila delle steppe e un falcone troppo lontano per poterlo identificare.
Al bivio tra Santa Caterina e Feiran però ci aspetta una bella sorpresa.
Ci fermiamo all’immancabile posto di blocco e un’uccelletto che svolazza nei paraggi attira la nostra attenzione: è una femmina di monachella di Finsch, specie del tutto inattesa.

Arriviamo al Monastero in tarda mattinata e dobbiamo districarci in una torma di turisti e venditori di cianfrusaglie. I cannocchiali, come al solito, attirano l’attenzione e ogni bimbetto vuole guardarci dentro.
Non c’è tempo per visitare l’antico monastero fatto costruire dall’imperatore Giustiniano in questa gola stretta e impervia.
So che all’interno sono conservate un’importante collezione di icone e soprattutto una preziosa raccolta di codici manoscritti (la più ricca, dicono, dopo quella del Vaticano!).
Metto a tacere la mia discutibile coscienza di bibliotecario e rinuncio al Codex syriacus per il Carpodacus synoicus.



Nelle mura di granito del monastero nidificano le rondini montane pallide e nei suoi orti trovano rifugio passeri, luì grossi, codirossi e un paio di gruccioni ritardatari. Brian e Francesco sono i più lesti a districarsi tra la folla e li raggiungo al recinto dei dromedari appena in tempo per osservare con loro due femmine di ciuffolotto del Sinai attirate col registratore portatile.
Gli altri non saranno così fortunati.
Le due primedonne si mostrano per meno di un minuto posate sulle rocce e poi volano via oltre il sentiero sassoso che si inerpica sul Monte Sinai.
Nelle due ore successive, tentiamo di tutto (tranne il sacrificio umano – che pure qualcuno propone) per rivederle, ma restano sorde ai richiami, alle preghiere e alle minacce.



Nel frattempo, ci godiamo una coppia di beccamoschino inquieto, più magnanine che beccamoschini d’aspetto, ma decisamente inquieti come comportamento.
Un branco di storni di Tristram si sposta lungo il fianco della montagna.
Le allodole del deserto (foto sopra) e le allodole del deserto minori vengono a beccare invisibili semi a pochi metri da noi.
Anche la monachella dal cappuccio e la monachella testabianca si fanno vedere tra le rocce.
All’una dobbiamo partire.
Ci attendono l’Oasi di Feiran e un lungo viaggio di ritorno, ma una grossa acacia nei pressi del parcheggio ha in serbo un’ultimo dono per noi: un maschio e una femmina di nettarinia della Palestina succhiano i fiorellini gialli con i loro lunghi becchi da colibrì.


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Oasi di Feiran

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